Il successo dei vini dell’Etna e la varietà dei suoi versanti ha stimolato negli ultimi anni la moltiplicazione di nuove cantine, spesso minuscole, con una produzione di poche migliaia di bottiglie. Secondo alcuni, l’onda dei ‘piccolissimi’ rischia di drogare il mercato e di abbassare la qualità. A causa delle modeste dimensioni, dei costi di gestione elevati e della carenza di competenze, non tutti i produttori esordienti sono in grado di reggere il confronto con le cantine che hanno fatto la storia. Questa estate Salvino Benanti, titolare della omonima cantina che ha fatto la storia dell’Etna, ha lanciato al Gambero Rosso la proposta di «una grande cooperativa sull’Etna, dove i piccoli potrebbero conferire le uve. In questo modo non sarebbero abbandonati a loro stessi». Sul punto ritorna ora Seby Costanzo, titolare di Cantine di Nessuno a Trecastagni, sul versante sudest, che lancia l'idea di una cantina co-working.
L'exploit delle piccole cantine sull'Etna
«L’Etna di oggi nasce 30 anni fa con Benanti e Villagrande - argomenta il produttore - Le cantine sono state poche per tanti anni. Gli ultimi dati ufficiali del consorzio ci raccontano una realtà profondamente diversa: le cantine sull’Etna sono diventate 176, con un aumento esponenziale concentrato negli ultimi anni. Di queste, 35 producono oltre 50mila bottiglie, 64 tra le 10 e le 50 mila bottiglie, ben 110 portano sul mercato meno di 10mila bottiglie», snocciola i dati Costanzo. Un fenomeno che esprime grande frammentazione.
Ma Seby Costanzo avverte: «I piccoli sono a rischio: non hanno ancora compreso la complessità della produzione del vino. Il vino poi devi anche venderlo. Del resto, come fai a essere forte fuori se non sei forte a casa tua? E poi rimane il problema confusione». Come si fa a valorizzare questo fenomeno? Risponde Costanzo: I produttori più piccoli sono quelli che puntano con determinazione sulla qualità dei propri vini, fanno sperimentazioni, ma spesso non riescono a controllare tutti i processi anche per difetto delle risorse necessarie. Il Consorzio può essere un grande viatico per comunicare tutto questo: «Al Vinitaly abbiamo cercato di presentare questa varietà dell’Etna nel modo migliore possibile. Abbiamo realizzato un’area a forma di ‘U’ con, al centro, una montagna/piazza che raccoglieva le piccole cantine tutte insieme: così abbiamo comunicato unione. Ma resta la preoccupazione che il fenomeno diventi una moda e che non siano rispettate qualità e serietà». La soluzione potrebbe essere quella di una grande cooperativa come propone Benanti?
Il Consorzio può essere un grande viatico per comunicare tutto questo: «Al Vinitaly abbiamo cercato di presentare questa varietà dell’Etna nel modo migliore possibile. Abbiamo realizzato un’area a forma di ‘U’ con, al centro, una montagna/piazza che raccoglieva le piccole cantine tutte insieme: così abbiamo comunicato unione. Ma resta la preoccupazione che il fenomeno diventi una moda e che non siano rispettate qualità e serietà». La soluzione potrebbe essere quella di una grande cooperativa come propone Benanti?
L'idea di una cantina co-working
«Non vedo bene la cooperativa qui - avverte Costanzo - non fa parte della cultura locale dove vige la frammentazione e si basa su meri conferitori di uve». Piuttosto, propone, «vedrei bene un modello di cantine ispirate al co-working: 4-5 produttori che decidono di condividere lo stesso spazio, gli stessi attrezzi e macchinari, a partire dalla pressatrice fino alla linea di imbottigliamento, ma anche le risorse umane: basterebbe un solo cantiniere e un solo enologo. In fondo, molti hanno cominciato appoggiandosi presso le cantine più grandi. La cantina condivisa non sarebbe un’attività conto terzi, bensì avremmo un valore aggiunto: si mettono a fattor comune caratteristiche diverse».
Costanzo, architetto d'interni e imprenditore creativo, non è nuovo a esperienze simili. Racconta: «Alcuni anni fa a Catania, in via Monfalcone (per anni una delle strade più rilevanti del commercio e della movida, attrattiva per la borghesia cittadina, ndr), ho creato un temporary shop che metteva a disposizione ambienti, arredamento, servizi. Ognuno portava la sua merce e poteva venderla nel suo corner, poi tutti gli acquirenti pagavano alla cassa comune. I vari artigiani saltavano così i tempi per le pratiche e i permessi amministrativi e avevano a disposizione spazi e servizi». L’altra grande esperienza di Costanzo è stato il SAL (acronimo per Stato Avanzamento Lavori), «un borgo creativo nato a Catania all’interno di progetto di recupero di architettura industriale: un centro multifunzionale e culturale trasversale dall’atmosfera simile a certi ambienti newyorkesi, londinesi, milanesi, con una corte centrale trasformata in piazza attorno alla quale si condividono progetti e iniziative», spiega Costanzo che ora propone di applicare gli stessi principi e metodi alla viticoltura etnea.